L’energia Eolica corre nel Mondo a velocità diverse. Cresciuta anche nel primo semestre 2020 in tutta Europa, tra problemi reali e soggettivi sembra non riuscire ad esprimere tutto il proprio potenziale. Quali le cause? La prima argomentazione, condivisa anche da molti ambientalisti, riguarda l’efficienza troppo bassa in relazione al loro impatto ambientale. In una prospettiva di consumo di energia crescente di anno in anno si stima che nel 2019 l’utilizzo  mondiale di energia abbia raggiunto e superato i 150000 TWh (150000 miliardi di kiloWattora o kWh, per ricondursi ad un multiplo se vogliamo più familiare), secondo quanto riportato anche da Wikipedia. Se ad una prima battuta questa sembra una quantità smisurata, per dare giustificazione a questo dato sarebbe sufficiente cominciare il censimento a partire dai contributi delle principali attività energivore civili (come riscaldamento, mobilità, uso dell’energia elettrica), ottenendo cifre già sorprendenti. In questo contesto l’energia fornita da una turbina eolica di taglia medio-alta (attualmente diciamo di potenza 2 MegaWatt, come le installazioni oggi presenti sulla piana tra Firenze e Pisa, per intendersi) è stimabile pari a 4 milioni di kWh, quindi secondo alcuni solo un piccolo ago nell’immenso pagliaio della richiesta.

Ma parallelamente a questo aspetto sussistono altri problemi dell’energia eolica, dalla percezione sull’impatto ambientale fino ad effetti sulla salute umana, ognuno di questi meritorio di una seria riflessione e non solo di carattere puramente scientifico.

Potenziali disturbi per la salute

Ho avuto la possibilità di occuparmi di installazioni eoliche fin dalle prime installazioni di impianti in Toscana, per alcuni dei quali ho collaborato al perfezionamento dell’iter autorizzativo. Va infatti precisato che nell’ambito di una procedura di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), e anche nella fase di verifica preliminare (assoggettabilità a VIA) devono essere considerati alcuni aspetti chiave che vanno dalle questioni paesaggistiche, alla tutela della natura e della biodiversità, la difesa di suolo e sottosuolo, non per ultimo le necessarie valutazioni sulla salute e sulla pubblica incolumità. Si parla per lo specifico di valutazioni di inquinamento elettromagnetico e di impatto acustico (rumore), due tra i principali agenti fisici ai quali l’uomo risulta esposto in quanto fenomeni artificiali collaterali alle attività antropiche.

Relativamente ai possibili campi elettromagnetici prodotti le leggi di Maxwell assicurano che già a distanze di qualche metro il loro impatto è compatibile con i limiti di norma; anche volendo discutere sulla validità di tali limiti vale la pena ricordare che le tipiche installazioni si trovano usualmente a centinaia di metri dalle abitazioni, pertanto a queste distanze si ha lo stesso valore dei campi che si avrebbe in mare aperto, in assenza di sorgenti.

Per quanto riguarda invece il caso del rumore, questo va valutato in funzione del contesto tenendo sempre conto che l’accettabilità dei livelli, ossia la rispondenza con le soglie normative, non sempre coincide con la tollerabilità degli stessi. In altri termini: può essere che il rumore sia conforme alle prescrizioni di legge, ma risulti ancora distinguibile e le sue caratteristiche siano percepite come disturbanti. Si tratta di un noto effetto psicoacustico che in generale “non viaggia da solo”: dal momento che “vedo” una pala eolica e la percepisco come un elemento alterante del contesto sono anche predisposto a sentirne il rumore. Mi aspetto un effetto acustico indesiderato che innesca una sensazione di non gradimento, di non tollerabilità: non mi assorda senz’altro, ma mi dà fastidio. Nel caso più cautelativo e per un rumore a bassa frequenza si può pensare che l’intensità sonora diminuisca di circa 3 decibel per ogni raddoppio di distanza, perciò rispetto al rumore ad un metro dal mozzo possiamo dire che a 200 metri si ha una riduzione di 23 dB solo per motivi geometrici: da questo capiamo che il mascheramento completo del suono non può avvenire nei contesti completamente rurali o in altre zone prive di sorgenti antropiche significative.

Tutto sta nel garantire, nello studio acustico dell’impianto, una soluzione che realizzi il miglior compromesso, fermo restando il rispetto di tutti i limiti di rumorosità che risulta assolutamente possibile oltre certe distanze.

Capitolo a parte meritano tutte le restanti argomentazioni dei detrattori dell’eolico a prescindere; comunque devo dire che navigando su internet si trovano una varietà di argomentazioni presentate che vanno da generici disturbi psicosomatici fino ad arrivare alla cosiddetta sindrome da turbina eolica (sensazione di instabilità, ansia, panico, ronzii e pressioni auricolari, vertigini, nausea, problemi alla vista, tachicardie, emicranie, depressioni, problemi di memoria, insonnia e/o disturbi del sonno). Due aspetti non trascurabili che però accomunano gli studi o presunti tali individuabili in rete sull’argomento sono l’assenza quasi sistematica di referenze ufficiali (si cita qualcosa ma spesso non si cita chi l’ha detto e/o la fonte dell’informazione) e lo scarso campione di popolazione che è stato coinvolto nei vari test. Il tutto assolutamente poco ortodosso in relazione ad un corretto approccio scientifico, alla Galileiana maniera per intendersi.

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Vi è infine un filone più o meno esoterico, o comunque “esotico” (qui nell’accezione di lontano dal senso comune), che richiama principi indimostrati nell’attuale contesto scientifico: discipline olistiche, new age, citazioni Feng Shui. Spesso i pareri di questi articoli on line sono discordanti se non opposti, e la qual cosa dovrebbe suscitare il dubbio che questo tipo di valutazioni non siano completamente oggettive. Mi è capitato di leggere addirittura di presunte frequenze di vibrazione che sono nocive per l’essere umano. Per intendersi, assumendo per vero che ognuno è libero di abbracciare il paradigma che ritiene più opportuno, da “riduzionista” convinto ritengo che un criterio di selezione universale della validità di una teoria potrebbe essere il seguente: un’impalcatura di pensiero che per stare in piedi ha bisogno di molte più assunzioni indimostrabili piuttosto che i risultati da queste ricavabili non è mai difendibile in un confronto, ma al più diventa un dogma, una fede. E sui dogmi non ha mai senso discutere.

L'impatto paesaggistico

Vorrei sviluppare un’analogia: tutti noi conveniamo sulla necessità di difendere la nostra casa da una qualsiasi minaccia. Il problema diventa allora quello di trovare una definizione condivisa del concetto di “casa nostra”, concordare su cosa si possa definire oggettivamente una “minaccia” ed infine individuare dei metodi ammissibili per la difesa, soprattutto avendo ponderato il pericolo. In questa analogia conveniamo che “nostra casa” sia individuabile ovviamente come l’ambiente e il paesaggio, intesi come sistemi frutto di determinati equilibri e di una lentissima sedimentazione di fattori sia naturali che antropici. Oggettivamente non siamo propensi a subirne trasformazioni repentine derivanti da forzature umane che spesso sono in contrasto con i tempi di adattamento degli ecosistemi. E nell’ambito di questo ragionamento, è legittimo che qualcuno possa ritenere che le turbine eoliche siano brutte (non si sono altri sinonimi che rendano l’idea), o quanto meno “fuori luogo” nel senso letterale del termine.

In altre parole, sembra che l’atteggiamento prevalente di molte persone contrarie all’eolico sia “not in my backyard”, però questo atteggiamento è sostenibile solo se partiamo dal presupposto di poter conservare comunque un “backyard”, ossia che il futuro non ci riservi cambiamenti climatici tali da alterare in modo significativo la configurazione del paesaggio che così tanto ci premuriamo di preservare. Purtroppo su scala breve abbiamo già assistito ultimamente a fenomeni locali devastanti (Livorno, Palermo, Liguria) che hanno lasciato un’impronta significativa sia attorno che dentro di noi. 

Va ricordato anche che in Italia la determinazione dell’impatto estetico e la relativa sostenibilità di un intervento, secondo il Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137″  è demandata alle Soprintendenze e alle Commissioni Paesaggio in funzione dei casi, quindi stiamo di fatto affidando decisioni su questioni molto delicate a organi cosiddetti sovraordinati, ossia che non dipende da nessun altro organo né carica dello Stato. Direi che, visti gli obiettivi green all’ordine del giorno nell’agenda Europea, sia necessario che venga spesa una riflessione anche su questo aspetto.

Riduzione del valore immobiliare

Su questo punto vorrei rilanciare subito con un controesempio, di cui molti avranno già sentito parlare, che riguarda un bellissimo borgo toscano (il Comune di Peccioli) e la discarica di cui la sua amministrazione ha deciso di dotarsi quasi 25 anni fa. Apparentemente un progetto in controtendenza sotto il profilo della crescita di valore di un territorio dell’interland collinare, quella discarica ha invece prodotto sviluppo, benessere, democrazia partecipativa, progetti solidali, strutture educative, impianti e servizi per il cittadino con tutti i vantaggi economici, sociali e culturali. Tutto questo è reso possibile anche per l’eolico attraverso il meccanismo delle royalties, per cui un’Amministrazione ottiene benefici contrattuali come contropartita della messa a disposizione di territorio, con ricadute positive sul cittadino in termini sia di investimenti di carattere sociale e culturale, sia di possibilità di ridurre tasse (come la TARI) e di imposte (addizionali IRPEF). E questo credo concorra semmai all’incremento del valore immobiliare presente su un territorio, piuttosto che ad una riduzione.

Se per contro guardiamo ai dati sull’andamento dei prezzi di varie tipologie di immobili residenziali di una città che più di altre è legata alla tutela del proprio patrimonio storico e paesaggistico, come Firenze, scopriamo periodi di pesante caduta del valore del mattone. Vista da questo profilo, sembra addirittura che sia la “conservazione a prescindere” a non pagare.

Il rischio per la fauna aviaria

Su questo argomento mi limito a ricordare che dal 2014 esistono le “Linee Guida per la valutazione dell’impatto degli impianti eolici sui chirotteri” (Roscioni F., Spada M. et al.), il cui incipit esprime una linea programmatica molto chiara: “l’Europa è tenuta ad affrontare l’inquinamento e i cambiamenti climatici trovando metodi sostenibili per rispondere alla crescente domanda energetica”. Specificamente nel caso dei chirotteri, questi sono protetti ai sensi della Direttiva Habitat 92/43/EEC, della Convenzione di Berna (1979), della Convenzione di Bonn (1979), e in ogni caso è possibile applicare al caso la normativa in materia di danno ambientale (Legge 152/2006). Sostanzialmente le aree indicate come da evitare per la costruzione di impianti eolici comprendono tutte le zone a meno di 5 km da  aree con concentrazione di zone di foraggiamento, riproduzione e rifugio dei chirotteri,  siti di rifugio di importanza nazionale e regionale e per finire gli stretti corridoi di migrazione. Volendo affrontare una disamina delle problematiche, la questione della collisione con i rotori è segnalata come di criticità alta ma soprattutto nel periodo migratorio, da cui l’esigenza di mappare le rotte ed evitare installazioni. Altre questioni sono legate alla perdita di habitat di foraggiamento durante la costruzione delle infrastrutture di supporto (strade, fondamenta, ecc.) con impatto stimato da basso a medio, in base al sito prescelto e alle specie presenti. Infine si segnala la possibile perdita di siti di rifugio e di accoppiamento per le alterazioni del luogo di insediamento: come si può notare , si tratta per tutti i casi di questioni sito-specifiche che si manifestano appunto in aree ben localizzate e monitorabili, al contrario dell’impatto sugli ecosistemi a larga scala derivante dall’incremento di CO2.

Il problema del rumore delle pale eoliche

La questione è stata oggetto di numerosi studi al punto che l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale ) nel 2012 ha elaborato specifiche “Linee Guida per la valutazione e il monitoraggio dell’impatto acustico degli impianti eolici”, riferendosi ad aerogeneratori di potenza nominale superiore ai 50 kW (quindi non utilizzabili per il minieolico). Questo approccio di fatto riempie il vuoto procedurale in materia di valutare una sorgente di rumore che per esistere ha bisogno di un’altra sorgente di rumore, ossia del vento stesso. In pratica: in assenza di ventosità le pale non producono rumore, in presenza di vento il rumore di quest’ultimo agisce con un effetto coprente. Ma sussisteva comunque la necessità di definire un metodo “universale” e oggettivo per determinare le emissioni acustiche dei vari modelli di aerogeneratori che adesso viene indicato dalle suddette Linee Guida, ed utilizzato in modo sistematico almeno nella nostra Regione per il collaudo degli impianti. Secondo le suddette “la corretta verifica della conformità dell’impianto eolico ai limiti normativi di acustica ambientale richiede che sia eseguita la procedura di acquisizione dei dati di rumore non soltanto quando il parco è pienamente operativo ma anche nei periodi in cui gli aerogeneratori sono fermi […] Pertanto, i tempi di misurazione utili all’analisi del rumore generato da impianti eolici devono essere abbastanza lunghi da coprire le situazioni di ventosità e direzione del vento a terra e in quota tipiche del sito oggetto di indagine.” Viene quindi fornita una tecnica per stimare tutti gli indicatori normativi ed effettuare pertanto il confronto con i relativi limiti di legge, che sostanzialmente confermano la fattibilità tecnica degli impianti avendo cura di rispettare alcuni criteri anche abbastanza semplici di posizionamento.

Le basse frequenze

È ovvio che ancor prima di essere delle gigantesche “girandole rotanti”, gli aerogeneratori sono dei pendoli installati al contrario. Pendoli di lunghezza caratteristica di decine di metri (tale è l’altezza del mozzo per taglie di centinaia di kW). Ogni pendolo è caratterizzato da una frequenza caratteristica, in grado di generare una sollecitazione nel terreno che può propagarsi per chilometri.

Ovviamente un’affermazione del genere, se utilizzata in modo non opportuno, può ingenerare molte perplessità, ma ogni ragionamento va contestualizzato: una tale sorgente di vibrazioni alle medesime frequenze esiste già, ed è dovuta alle oscillazioni delle maree, anche di maggiore intensità. Va inoltre considerato che l’evoluzione tecnologica dei sistemi eolici viaggia alla stessa velocità, per dare un esempio, di quella dei telefoni cellulari, per cui criticità che fino a ieri sembravano irrisolte oggi possono apparire del tutto superate. A tal proposito per il problema specifico sono stati introdotti i cosiddetti “mass damper”, o smorzatori a massa risonante, per ridurre l’effetto della rotazione ai danni della struttura portante: sostanzialmente si tratta di una massa ausiliaria, dimensionata in modo da oscillare controbilanciando l’eccentricità di rotazione delle pale stesse. E questo è solo un piccolo esempio di come, quando si vuole migliorare un sistema, l’ingegno umano trovi sempre una strada da percorrere e non una scusa per fermarsi (soprattutto quando le alternative sono più drastiche: . A dimostrazione di ciò, sappiamo che il parco eolico di Pontedera-area industriale Gello è in grado di convivere ad esempio con la strumentazione dell’European Gravitational Observatory (EGO), in località Santo Stefano a Macerata (comune di  Cascina, pochi chilometri più ad ovest) che per le caratteristiche dell’esperimento in atto (detection di onde gravitazionale) è dotato di sistemi di pendoli assai più sensibili ed “intolleranti” a questo tipo di vibrazioni rispetto all’uomo.

Il problema idrogeologico

La cosiddetta “questione idrogeologica” deriva dalla necessità normativa, corretta e assolutamente condivisibile, di non contribuire alla contaminazione reciproca di acque di falde differenti. Prendiamo ancora il caso di Pontedera: quattro installazioni in piena pianura alluvionale, la cui costruzione poteva essere potenzialmente impattante da questo punto di vista. In questi casi, infatti, si utilizzano fondazioni su pali estesi fino al cosiddetto strato di “bedrock” (oltre 50 km sotto il piano campagna), perciò è evidente che venissero intercettate almeno due falde a quote differenti. In tutti questi casi è però sufficiente utilizzare tecniche per evitare fenomeni di trascinamento di terreni potenzialmente contaminati e/o consentire il barrieramento delle falde (ad esempio con la cosiddetta tecnologia “tubfix” o di fondazione indiretta autoperforante, per il quale il tubo viene  usato prima come asta di perforazione e, una volta arrivati alla profondità voluta, viene lasciato nel foro come armatura a perdere). Questa tecnica consente di risolvere in modo semplice ed elegante la questione proposta.

Le difficoltà nell'installazione

È ovvio che quando si parla di un parco eolico l’immaginario collettivo è immediatamente dirottato verso le turbine, che si impongono per prime alla vista in quanto modificano in maniera più incisiva il contesto paesaggistico circostante; ad ogni modo le componenti di una “wind farm” non si esauriscono nell’insieme di aerogeneratori, interessando tutta una serie di infrastrutture di supporto, dalle cabine di trasformazione elettrica ai punti di consegna alla rete, fino alle infrastrutture stradali che sono necessarie per il trasporto dei componenti e in seconda battuta per la manutenzione degli impianti. Date le dimensioni del materiale da assemblare, infatti, il montaggio dei componenti avviene direttamente in situ, e questa circostanza ha sollevato già in passato notevoli rimostranze da parte di chi vedeva nella realizzazione dell’impianto una deturpazione di territorio. Segnalo la questione perché è reale, ma per quanto sia inevitabile è anche vero che i percorsi stradali sono ottimizzati, essendo il problema più importante solo quello di garantire il giusto raggio di curvatura per gli autoarticolati. Altrettanto ovvio che, in contesti tipo quello off-shore, tale problema non sussista: ancora una volta ci troviamo di fronte al bivio tra il “fare al meglio che si può” e una più radicale posizione di difesa del locale, a scapito del globale. Ancora una volta “not in my back yard”, ma questo tempo sta passando velocemente, quindi si tratta in ultima analisi di accettare – o meno – la sfida di riparametrare il nostro senso del bello ad un’idea più universale di azione, piuttosto che ad una salvaguardia contingente e poco funzionale alla vera battaglia del nostro secolo, la lotta per la nostra sopravvivenza.

Autore:

Prof. Luca Alfinito, fisico magistrale, si occupa di ambiente ed energia dal 2001. Dal 2005 è abilitato alla professione di ingegnere con laurea N.O.

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